ZEPPOLE CON PATATE NAPOLETANE.

Frequentemente noto nelle stringhe di ricerca la richiesta ”Zeppole con patate napoletane”. Credo intendiate quelle che spesso, come ho già detto in un mio post precedente, sostituivano nel giorno di San Giuseppe le più ’nobili’ zeppole a bignè.

Qui a Napoli vengono definite graffette o “zeppole a  e o elle” ed oggi ve ne do la ricetta, quella che da tempo uso io stessa.

Ingredienti:

500 gr.farina

400 gr patate

2 uova intere + 2 tuorli

½ vaschetta di margarina

1 dado di lievito di birra

½ bicchiere di latte

100 gr zucchero

La buccia grattuggiata di 1 limone

1 pizzico di sale

Per la cottura:

Olio per friggere.

Bollite e schiacciate, con lo schiacciapatate, le patate in una terrina; aggiungetevi la farina, il lievito sciolto in poco latte tiepido ed i restanti ingredienti.

Impastate bene e formate poi tanti cordoncini dalla lunghezza di circa una ventina di cm e dal diametro di circa uno. Avvolgeteli a formare una ‘elle’e metteteli tra due canovacci a lievitare per un paio di ore. Friggete le zeppole in abbondante olio bollente e cospargetele, ancora calde, con zucchero semolato.

Eccole:

zeppole con patate

Leggi la ricetta in napoletano

Guarda anche la ricetta delle zeppole di san Giuseppe

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ACQUA ‘E MUMMARA.

di Gianna Caiazzo

 

È stato sicuramente prima del 2000, anno in cui fu ufficialmente aperta (e presto richiusa) ai cittadini la  fonte di Via Riccardo Filangieri Candida Gonzaga che ho potuto assaggiare la famosa acqua sulfurea o ferrata detta dai napoletani acqua “zurfegna” o “suffregna”che sgorgava proprio da un’apertura nella parete sul  perimetro del Palazzo Reale di Napoli. La fonte era protetta da una grata ma con le maglie abbastanza larghe da poterci infilare un’asticella a cui  era stato legato un bicchiere di plastica. Finalmente la mia curiosità sull’acqua di mmummara stava per essere soddisfatta.

Attesi qualche scondo prima di poterla bere, giusto il tempo di vedere depositarsi sul fondo dei granuli rossastri ,credo si trattasse del ferro. L’odore di zolfo non era davvero eccessivo, il sapore non sgradevole ma trovai che la consistenza dell’acqua fosse un po’ pesante, personalmente sentii che non sarei riuscita a berne grandi quantità. Eppure questa, una volta, era l’acqua del popolo e fino agli anni ’50 era venduta per le strade o dagli acquafrescai che la usavano per ‘allungare’ aranciate o limonate.

Era attinta liberamente alla fonte del Chiatamone, una strada ai piedi del monte Echia (da qui anche il nome di acqua del Chiatamone) e raccolta nelle mmummare, orci di terracotta a doppia ansa. Veniva venduta al dettaglio nelle mmummarelle, più piccole, da cui normalmente la si beveva e che venivano poi  restituite e riutilizzate, credo contro ogni principio di igiene.

Nel ’73, in seguito al colera, la fonte del Chiatamone fu chiusa perchè ritenuta infetta, così scomparve l’acqua, le mmummare e con esse una caratteristica di Napoli.

Una caratteristica cosi’ radicata che qui e ed in nessun altro luogo in Italia, ancora oggi, si definisce ‘faccia ‘e mmummara’ un volto molto paffuto con zigomi sporgenti, di quelli detti ‘a palloncino’.

Infine, sembra che in alcuni casi le mmummare siano state utilzzate sinanche come camera d’aria nella costruzione o forse nel rifacimento della pavimentazione di edifici antichi, come può dedursi dal loro ritrovamento in loco durante dei lavori.

Ma voi, avete mai visto una vera mmummara?

mummara

 

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COME SI DICE A…LONDRA!

di Gianna Caiazzo

 

Spesso i napoletani si concedono la licenza di inserire sinanche nelle loro conversazioni in italiano qualche termine o modo di dire in ‘dialetto’. Questo sembra essere un modo per dare inicisività ad una parola o ad una frase rendendola più immediata, esaltandone la  familiarità.

Si tratta di espressioni il cui corrispettivo italiano non avrebbe la stessa efficacia o, in alcuni casi, la stessa tollerabilità.

“Si’ proprio ‘nu  figlio ‘e ‘ntrocchia!”, ad esempio, è un eufemismo accettato con serenità da tutti.  “Si’ ‘nu  figlio ‘e càntaro” è un po’ diverso, un po’ più irriverente. Appellare così qualcuno significa fare delle analogie tra i suoi ed un pitale. Ma se sapessero che figlio ‘e ‘ntrocchia è la corruzione di  figlio di dentro alla rocchia cioè di  dentro al gruppo, di uno qualsiasi, di padre incerto, forse sarebbero meno sereni. Lo stesso vale per “puozze sculà!” che  fa addirittura sorridere ma altro non è che un augurio di morire e di essere messo seduto sulle cantarelle, sedili in pietra forati che raccoglievano gli umori del cadavere. A saperlo, sarebbe meglio sentirsi augurare il caro, semplice “Crepa!”. In alcuni casi sono termini puramente dialettali senza una loro precisa traduzione:

“Addo’ vaje parianno?”  Dove vai pariandoPariare non si trova nel vocabolario italiano ma in quello napoletano vuol dire digerire, smaltire.Visto che il termine si usa per indicare uno stato di rilassamento, di nullafacenza, di svago, di trastullo, potrebbe effettivamente essere una derivazione del significato originale. Ma non è escluso che possa venire anche da  papariare, guazzare al modo delle papere.

In molti casi un’espressione viene troncata per lasciare al proprio interlocutore l’opportunità di sottolineare, completandola, il proprio coinvolgimento nel discorso, di contribuire  al  pathos della conversazione.

“E vabbe’, che vuoi fare? Storta va…“-comincia l’ uno- ”Deritta vene!” -continua l’altro-“Sempe storta nun po’ gghì!” concludono all’unisono.

Pariare e sbariare (svariare, svagarsi) sono sono alcuni dei termini che i napoletani, specialmente i giovani, introducono frequentemente nel loro linguaggio italianizzandoli simpaticamente.

La seppia, ad esempio, è associata per il suo “buttare nero” allo jettatore, ad uno che porta male.

“Si ‘na seccia!”si dice di chi vede tutto nero.”Sei una seccia!” e non “sei una seppia!” dicono i ragazzi parlando in italiano.

Anche  ‘a cazzimma termine tutto napoletano che indica cinismo e cattiveria gratuita, di cui non esiste traduzione od etimologia certa (forse da collegarsi al membro maschile) viene usato cosi’ come’è : ”Tieni la cazzimma! “

Di solito un modo di dire viene introdotto dalla domanda :”come si dice a Napoli?”.

“Eh! Comme se dice a Napoli? Senza ‘e fesse nun campano ‘e deritti!” A me personalmente piace introdurli con un’ affermazione un po’ambigua proprio per calcare l’accento sulla loro tipicità e cioè : “Come si dice a Londra…”

Qualche volta, però, l’abitudine di italianizzare espressioni napoletane può creare confusione come quella volta in cui in Calabria, nel ristorante di amici, mi lasciai andare inavvertitamente a questa pratica. Riferendomi, infatti, ad un contorno in particolare scelto tra due mi feci scappare il “vezzo”di convertire il napoletanissimo “dduje dduje” che significa pochi, in “due due“, con il risultato di vedermi recapitare al tavolo due contorni per tipo.

Forse in quel caso sarebbe stato davvero meglio se avessi specificato: Come si dice a…Londra!


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TAKE AWAY NAPOLETANO.

di Gianna Caiazzo.

Nel TG di qualche giorno fa si decantavano le delizie take away, i cibi di strada di varie città  italiane: Non si puo’ passare per Firenze senza assaggiare il famoso lampredotto (trippa in brodo), se vai in Puglia non puoi non deliziarti con le “esplosive” bombette (spiedini di bocconcini di salsiccia piccante), a Palermo il panì ca meuza (panino con trippa e frattaglie bollite). E a Napoli? Cosa offre il panorama del “fast food” partenopeo?

Se si vuole visitare la città ed essere certi di non aver tralasciato di provare alcune delle bontà più tipiche consiglio allora di iniziare dalla colazione, ovviamente potete scegliere se suddividere il tutto tra più giorni o fare una ‘full immersion’ da brivido.

Un buon caffè napoletano, di quelli ristretti, con sopra quel velo di soffice schiuma potrà egregiamente accompagnarsi ad una bella sfogliatella, la frivola riccia o la pacata, rassicurante frolla. Se nella tarda mattinata siete in giro per i vicoli brulicanti di vita, pervasi da odori e rumori, non potrete fare a meno di seguire il vostro olfatto fino a quella friggitoria dove vi accaparrerete un caldo cartoccio di zeppole e panzarotti1 che sicuramente i più curiosi arricchiranno con qualche palla di riso 2, qualche melanzana o sciurillo cu ‘a  pastetta3 o ‘nu scagliuozzo ‘e farenella4. A pranzo, inutile dirlo, la signora Pizza, la sensuale, la provocante, la maliarda, vi aspetta ovunque, pronta a sedurvi con il suo profumo, i suoi colori, il suo calore. Toccatela, con le mani, non vi accontentate di un platonico approccio demandato a coltello e forchetta.

Nel pomeriggio, se siete stanchi di aver girato a lungo rinfrancatevi lo spirito, “ripigliatevi” con un bel babbà al rum.

A sera, nei quartieri popolari o anche sul lungomare, potrete trovare i caratteristci motocarretti  che offrono ‘o pero e ‘o musso5 cosparso di solo limone e di una spruzzata di sale che, come in un rituale, fuoriesce da un beneagurante corno bovino, cornucopia di gusto e semplicità.

“Ma pecchè”mi scrive Angela, azzeccandoci la rima “‘o tarallo cu ‘a birra ‘o vulessemo jettà?”

Se vi sembra che questo post vi abbia già appesantito, un goccio di limoncello 6 certo potrà aiutarvi.

1) Semplice pasta cresciuta e fritta e piccole crocchette di patate.

2) Arancini di riso in bianco cacio, uova e pepe.

3) Melanzana o fiore di zucca in pastella.

4) Frittelle di farina gialla e acqua condite poca sugna cacio e pepe

5) Stinco, muso (ma anche trippa ed altre frattaglie) di bue  e maiale.

6) Famoso liquore di infuso di bucce di limone.

 

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